All’intimità del dopo, che sgomenta gli occhi sciacalli e le mani ladre che morbose bussano alle porte, elemosinando il contrappeso della propria miseria.
Alla discrezione
scagliata contro come sasso,
all’ultimo dei Giuda.
E al silenzio, per brindare:
codice segreto tra amanti,
che si giurano amore
per l’ultima volta.
Vorrei sbattere in faccia al mondo
quanto mi senta accudito,
ogni volta che parlo con te.
Eppure quel pendolo non salta mai un passo,
così il bambino scemo che mi porto dentro,
si siede da grande e smette di ciondolare i piedi
stretti negli scarponcini di vacchetta.
Spesso è stata ora di andare,
ma tu nutrice dell’ anima mia,
non puoi nemmeno immaginare tutte le volte
che avrei voluto restare.
Solo un sospiro tra me e fuori:
resto sulla porta sconsolato e taccio,
sorridendoti, la mia rassegnazione.
“Un giorno, in terza elementare, la mia classe venne accorpata ad un’altra. Mancava la maestra Giovanna e i miei compagni ed io ci ritrovammo a condividere gli spazi con dei perfetti sconosciuti. Bambini, ma pur sempre estranei. Oggi ho l’impressione che fossero piccoli estranei solo ai miei occhi: a ben ricordare gli altri bambini si divertivano! A dirla tutta, per me non era divertente neanche la ricreazione, perché si era più liberi e le persone libere prima o poi devono fare i conti con delle scelte. Preferivo di gran lunga il rassicurante recinto delle regole: se non altro, non avrei avuto il problema di scegliere se saltellare come una farfallina, o correre come Flash, se salutare la dolce Greta e le sue ancelle in boccoli e scarpe stroboscopiche, o starmene in disparte fingendo interesse per un nocciolo di kaki, preso direttamente dal giardino qualche ora prima. Trovavo soddisfazione in un quaderno ordinato, in una delle mie poesiole, scritte quando l’amore era ancora uno strano incrocio tra la gratitudine e l’ammirazione per mamma e papà; o quello sfarfallio nello stomaco, che non sapevi mai se era fame, o il ragazzino con la brillantina e la riga da un lato, che ti sedeva davanti. Ero goffa, poco sociale, ma era rassicurante. Oggi sono una donna, che della sua bellezza ne ha fatto il suo macello.
Ricordo con disgusto un ragazzino di un’altra classe, che aveva deciso di dedicarmi le sue attenzioni. Mi seguiva fino a casa e con la curiosità morbosa di chi si limita ad immaginare, fu breve il passo dalle parole fastidiose ai palpeggiamenti furtivi. Furtivi. Vigliacchi. Si può essere vigliacchi da bambini? Si. Non gliel’ho mai perdonato. Cercai di ripulirmi la coscienza istintivamente, perché a casa mia mia sorella ci teneva a precisare “è tutta colpa tua”, ogni volta che ci mettevano in punizione. Si può soffrire tanto da bambini? Si. Purché silenziosamente. Così quando indicai a mio papà il bambino che mi aveva molestata dall’altra parte della strada, lo feci più per convincerlo che non era colpa mia, che non mi era piaciuto, che non ci volevo stare a quei giochi da mascalzoni! La verità è che avrei voluto me lo avesse detto lui: non è colpa tua, ti difendo io. Ma come si difende una figlia dalla propria bellezza, quando la bellezza ha a che fare con lo sguardo e i modi gentili? Quando la bellezza (imparerà presto) è la chiave che apre le porte dell’affetto e del bene altrui?
Diventai presto vittima dei miei silenzi, così non tardò il giorno in cui confusi una finestra di vetro con un angolo di cielo. ”
(Per poco ero felice, Marianna Usai. Dalla raccolta “Sono bella, ma non è colpa mia” Ed FusibiliaLibri)
Se vi è piaciuto, se siete curiosi di sapere come comincia e come va a finire, se siete curiosi di leggere altre storie rovinate dalla bellezza, il 23 Marzo a Piazza dei Satiri (Roma), la seconda tappa della presentazione del volume! La prima c’è stata domenica 9 Marzo al Museo Civico e Archeologico di Anzio. Vi lascio con qualche foto:
“Sono bella, ma non è colpa mia”, un’antologia curata da Maria Carla Trapani. Ed. FusibiliaLibri
“Per poco ero felice”
Museo Civico Archeologico di Anzio
“Per poco ero felice”
Ringrazio ancora Dona Amati e Ugo Magnanti della casa editrice FusibiliaLibri. Maria Carla Trapani, per la cura dell’antologia e gli altri autori presenti nel volume, per la bellissima esperienza.
Peonie bianche e fili di perle
all’altare di Diana,
dita per accarezzar la Luna
linee per infervorar le stelle
e l’odore.
L’odore è quello
d’un giardino mediterraneo,
quando la salvia bacia il rosmarino
e il basilico resta a guardare.
Ti chiamano Sole,
mentre ‘l tuo stomaco digrigna i denti
e morde cadaveri e scarta i vivi,
in un impasto votivo
di saliva e pentimento.
Ero una giornata di primavera
aspettavo la domenica
e i giorni di festa,
per mettere il vestito buono,
quello a fiori
che passavano le cognate di
cugino in cugino.
Quello con la gonna
e i sandaletti nuovi,
che ti facevano
più signorina.
E la femminilità
era una scoperta,
una civetteria,
da mostrare davanti la chiesa
a messa finita.
Come formiche
a risalire i gradini della piazza
e seguire per le vie
il profumo del sugo buono
che ribolliva da ore.
E questa è una storia
spezzata a metà,
dalla codardia
di un uomo,
che d’una bambina
vanitosa,
ne ha fatto una poveretta
spaventata
dalla sua stessa forma;
una serpe avvelenata,
con la madre e il padre,
con le bugie e l’amore.